LECTURA SIMPLICIUM
DALLA BOTANICA ANTICA ALLE FARMACOPEE DEL XVII E XVIII SECOLO A ROMA

Leonardo Colapinto


La terapia presso i popoli dell'antichità era figlia dell'empirismo e della tradizione orale. La natura fu la prima maestra della sanità dell'uomo; soggetto alle intemperie, assalito dalle belve, egli sentì subito la necessità di trovare una guarigione dai malanni e dalle ferite; i prati ed i boschi furono la prima fonte dei medicamenti dell'uomo preistorico. Per questi motivi da millenni conosceva l'azione medicamentosa di molte piante. Poiché egli adorava come divinità gli elementi naturali in particolare gli animali e le piante ecco quindi circondare di un alone magico e soprannaturale la fitoterapia, prerogativa della divinità. Naturalmente l'effetto terapeutico era attribuito non alle medesime ma all'intervento magico di alcune divinità; nell'antico Egitto la popolazione conosceva già il lino, il ricino, il fico, la canapa ed altri medicamenti di origine orientale come l'incenso e la mirra, di chiara importazione. Attraverso lo studio dei papiri, tra i quali il più famoso è quello di Ebers risalente al 1500 a.C., si può riscontrare un elenco di piante medicamentose o loro derivati come l'olio di ricino, l'assenzio, il melograno, il giusquiamo, l'oppio, l'incenso, la mirra, la coloquintide, la senape, tanto per citare le più importanti ancora oggi in uso.
Nel mondo greco e successivamente a Roma la conoscenza delle piante medicinali, l'impiego ed il commercio era molto sviluppato. Nei poemi di Omero si trovano piante dall'azione terapeutica alla base di filtri calmanti o eccitanti e di molteplici infusi. Sicuramente di grande importanza per la storia della Botanica risultano essere le opere di Teofrasto e di Dioscoride. Teofrasto Eresio, allievo e successore di Aristotile (Lesbo 371 a.C.) fu l'autore di un poderoso trattato "Historia Plantarum"; Pedanio Dioscoride (Anazarba I sec. d.C.) deve essere considerato il primo vero maestro di farmacognosia. La sua opera "De materia medica", suddivisa in cinque libri, contiene la descrizione di circa 5000 droghe e per ognuna di queste viene minutamente proposta la morfologia ed il suo impiego in terapia. L'opera di Dioscoride ebbe un'importanza fondamentale in tutto il Medioevo ed era tra l'altro fino al XVI secolo il testo classico per l'insegnamento della materia medica, come si chiamava allora la Farmacologia.
Attraverso gli scritti del più grande dei medici dell'Antichità: Ippocrate di Coo, possiamo risalire a quella che era la terapia in quel periodo. Nel "Corpus Hippocraticum" troviamo menzionate un gran numero di piante medicinali tra le quali alcune come l'oppio, l'elleboro nero, la belladonna, il veratro, ancora oggi largamente usate in terapia.
Anche la medicina romana era profondamente legata alla fitoterapia. Tutto il bacino del mediterraneo convergeva su Roma che presto divenne il centro di studio e di commercio delle droghe vegetali. Aurelio Celso nel "De Medicina" e Plinio nella "Naturalis Historia" ce lo confermano. Nel mondo antico il più grande ed autorevole studioso delle piante medicinali fu senza dubbio Claudio Galeno (129/211 d.C.). Di lui ci restano ancora 83 scritti tra i quali il famoso "De Simplicium Medicamentorum" nel quale sono elencate e studiate ben 473 piante medicinali.
Un balzo gigantesco in avanti nella conoscenza e nell'impiego delle piante medicinali ci viene dal mondo e dalla civiltà araba. Gli arabi o meglio i medici di lingua araba, dopo aver tradotto e diffuso le opere di Galeno iniziarono uno studio sistematico delle piante medicinali diffondendo largamente le conoscenze e le metodiche di preparazione mediante quei meravigliosi testi didattici scritti a mano contenenti disegni finemente miniati e piante essiccate: gli Erbari che, accanto ai bestiari ed ai lapidari, rappresentano un formidabile strumento per la diffusione della cultura nel mondo arabo. La terapia, infatti, nella medicina araba ebbe notevole sviluppo: accanto a droghe ormai classiche, gli arabi ne aggiunsero molte altre quali la canfora, la noce moscata, la noce vomica, il rabarbaro e il tamarindo.
Di rilevante importanza fu anche il contributo della Scuola di Salerno nello studio di molte piante medicinali quali l'assa fetida, la senna ed il sangue di drago.
Il primo nucleo della cultura della scuola medica espresso dall'anonimo "Regimen Sanitatis", contempla soltanto diciotto semplici: malva, menta, salvia, ruta, cipolla, senape, viola, ortica, issopo, cherefolio, ènula campana, pulegio, nasturzio, celidonia, salice, croco, porro e pepe nero.
Nasce a Salerno, alla fine del XIV secolo, il primo giardino botanico del mondo per opera di Matteo Silvatico; è un fatto rivoluzionario per la storia delle piante medicinali raccolte in un unico luogo dove è possibile coltivarle e studiarne l'impiego terapeutico. Matteo Silvatico è inoltre l'autore del trattato "Opus Pandectarum", apparso tra il 1309 ed il 1316, scritto appositamente per i medici ed i farmacisti tam Aromatariis quam medicis necessarium, nel quale tutte le piante dell'area mediterranea vengono accuratamente descritte; ad ognuna di esse l'autore aggiunge le sue personali valutazioni di medico esperto nell'Arte della farmacognosia. Il trattato contempla ben 487 specie vegetali con 1972 nomi; composto da 721 capitoli, 487 trattano delle piante medicinali dove accanto al nome della pianta segue l'elenco dei sinonimi: arabo, greco e latino; segue la descrizione morfologica ed infine le proprietà terapeutiche. Il merito maggiore del lavoro di Matteo Selvatico è costituito dal rigore scientifico usato nella descrizione e nell'elencazione dei semplici vegetali. Dalla Scuola di Salerno escono le prime farmacopee, che trovano la più ampia diffusione con la nascita della stampa (1450).
Degno di considerazione è l' "Antidotarium Nicolai" cioè di Nicolò Preposito Salernitano, nel quale si descrivono i medicamenti semplici e molti composti come il miele rosato e l'unguento di altea. In questo testo le piante medicinali vengono descritte minutamente e viene inoltre illustrato il metodo della raccolta e della loro conservazione. Stampata inizialmente a Venezia nel 1471, poi a Roma nel 1476, l'opera riveste parzialmente il carattere di farmacopea, infatti, come ordinato da Federico II di Svevia nelle "Costitutiones" (1231), fu prescritta come libro nominativo per i medici e i farmacisti di Napoli e della Sicilia.
Durante il Rinascimento due furono i fatti che maggiormente esercitarono una grande influenza sull'evoluzione della fitoterapia: la scoperta dell'America e l'invenzione della stampa. Grazie a quest'ultima aumenta incredibilmente la diffusione dei trattati di farmacognosia e degli erbari. Nel 1471 appare un'edizione latina delle opere di Mesue, seguita dalle opere di Dioscoride nel 1478 e dal "Compendium Aromatariorum" di Saladino d'Ascoli; nascono in questo periodo le prime farmacopee ufficiali, vale a dire quei codici compilati non più da singoli autori, ma da apposite commissioni di Medici e di Speziali per ordine di governi.
Il "Ricettario Fiorentino", la prima Farmacopea Ufficiale nel mondo, vede la luce a Firenze nel 1498. L'Opera, divisa in tre libri, contiene tra l'altro le norme per le varie operazioni relative alla raccolta, preparazione e conservazione delle droghe, la lista dei medicinali "semplici" e di quelli "composti". Siamo, in pratica, alla codificazione ufficiale delle operazioni relative alle piante medicinali manipolate e vendute in farmacia. Il "Ricettario Fiorentino" è indubbiamente la prima "pubblica" farmacopea; un libro che, scritto per ordine dell'autorità e da essa ratificato, con debite sanzioni, indica i medicamenti che devono essere presenti nelle officine farmaceutiche e le regole di preparazione. L'opera si apre con un proemio, contenente la necessità di tale compilazione: riordinare le idee in materia, le quali generavano solo confusione nella composizione dei medicamenti. A conclusione del proemio vi è un invito agli speziali di adempiere a tutte le cose con fede e diligenza. Il testo, come detto, si divide in tre parti. La prima contiene le regole necessarie per la preparazione e conservazione di tutti i semplici, la descrizione della raccolta delle droghe, con l'indicazione del periodo migliore per effettuarla e delle possibili falsificazioni.
Al "Ricettario Fiorentino" seguirono altre farmacopee, fra cui:
la Concordia Pharmacopolarum Barcinonensium (Barcellona, 1535),
la Farmacopea Valentiana (Valencia, 1553),
l'Antidotarium Mantuanorum (1559),
l'Antidotarium Romanum (1583),
la Farmacopea Ferrarese (1595)
e l'Antidotarium Bononiense.
L'"Antidotarium Bononiensis" ebbe la sua prima stesura nel 1574, alla quale fecero seguito molte edizioni nei due secoli successivi ed una persino nel 1800 a Venezia.
Accanto alle farmacopee ufficiali si pubblicarono pure Dispensatori ed Antidotari compilati da privati, utili guide per medici e speziali. Fra queste farmacopee, elaborate principalmente con criteri galeno-arabi, fu meritatamente famoso il "Dispensarium" di Valerio Cordo, che ebbe valore di Farmacopea ufficiale, per la città di Norimberga e che può considerarsi la prima Farmacopea pubblicata in Germania.
Nel 1600 le farmacopee, e così pure le ristampe e le pubblicazioni di più moderni trattati, Antidotari e Ricettari, si fanno più numerose. A Napoli, Giuseppe Donzelli, filosofo, medico e chimico diede alle stampe il famoso "Teatro Farmaceutico Dogmatico e Spagirico"; apparso nel 1609, fu uno dei trattati che nella metà del Seicento ebbe più successo. Nel 1649 uscì una seconda edizione, ma la differenza tra le due edizioni è molto lieve.
Degno di nota è anche il Dizionario Universale delle Droghe Semplici del francese Nicolò Lemery tradotto in italiano e stampato a Venezia nel 1751; in questo ponderoso testo sul quale si sono formate generazioni di farmacisti, i semplici vengono elencati in ordine alfabetico e minuziosamente descritti sia dal punto di vista botanico che terapeutico. In appendice oltre all'indice dei nomi latini di ciascun semplice troviamo una "Tavola delle Infermità alle quali le droghe semplici che si trovano descritte nel testo conferiscono giovamento"; 25 tavole contenenti ciascuna 16 illustrazioni di semplici concludono il volume.
Nel 1700 e più decisamente nel secolo successivo, a causa della divisione politica d'Europa, le farmacopee assumeranno il carattere di codici ufficiali validi per ogni singolo Stato; la redazione è scientificamente più complessa, poiché in esse si fonde la competenza pratica e teorica dei rappresentanti di parecchie discipline scientifiche e dell'industria farmaceutica nascente. Anche a Venezia viene stabilito di compilare un nuovo formulario ufficiale, che vede la luce nel 1617 ad opera del dott. Curzio Marinello. Ebbe validità fino a quasi la fine del successivo secolo, cioè fino a quando una commissione, formata da sette professori dell'Università di Padova, pubblicò il "Codice Farmaceutico per lo Stato della Serenissima Repubblica di Venezia" (Padova 1790). Il testo suscitò numerose critiche, perché troppo retrogrado, rispetto ai progressi scientifici. Infatti nello stesso anno il Codice fu ritirato, per ordine del Magistrato della Sanità; quindi per parecchio tempo Venezia ebbe come Codice ufficiale la "Pharmacopoea Austriaca Provincialis" (1798).
L'Antidotarium Romano e l'impiego dei semplici in Terapia nel XVII secolo Come giustamente fa rilevare il Corradi , l' "Antidotarium Romano" doveva essere il migliore, venendo alla luce dopo altri che lo avevano preceduto; riuscì invece il peggiore e il più antiquato di tutti. Fu stampato male, con numerosi errori; le varie parti non vennero distinte bene, non tutte le classi debitamente intitolate e non furono inseriti tutti i medicamenti. La prima edizione è del 1583. Fu quindi ristampato a Venezia, nel 1585 e nel 1590. Anche se il testo è il medesimo della prima edizione, la carta e la stampa sono migliori.
La seconda e la terza edizione (1619-1624) realizzate a Roma ad opera di Angelo Rufinelli e Angelo Manni, stampato da Andrea Fei, e differenti fra loro solo nella dedicatoria, vennero arricchite con nuove ricette e la traduzione del metodo di preparazione della Teriaca egittia; furono, inoltre, scritte in forma di dialogo da Prospero Alpino. Altre importanti modifiche vennero apportate da Pietro Castelli , il quale scrisse il "discorso della preparazione de'medicamenti, tanto semplici quanto composti", da inserire in sostituzione del capitolo simile pieno di errori presente nell'Antidotarium Romano.
Una nuova edizione fu stampata a Roma nel 1679: furono inserite nuove ricette e nuovi medicamenti, come la polvere composta di salsapariglia, la corteccia di guajaco, il turbith, il cremor di tartaro e turbitto. Il volume termina col memoriale per lo speziale romano, nel quale si pone il tempo di Roma, consueto di raccogliere e seccare le radici, le erbe, i fiori, i frutti; infine un calendario dedicato agli speziali, dove si ricorda ciò che ogni mese devono fare. In tutto si hanno 92 preparazioni, 6 composti medicinali e 35 medicamenti semplici. Chiaramente gli speziali potevano tenere anche altre cose, queste erano solo quelle da tenere obbligatoriamente e se ne erano sprovvisti rischiavano la multa.
È importante sottolineare, a questo punto, quale fosse nella Roma del '600 l'effettivo impiego delle piante medicinali in terapia. A Roma sin dall'inizio del XVII secolo grande impulso allo studio ed alla ricerca delle proprietà delle piante medicinali venne dato da alcuni nomi illustri di medici e naturalisti, tra i quali emerge la figura di Federico Cesi , che appena diciottenne nel 1606 fondò l'Accademia dei Lincei alla quale dedicò fino alla fine della sua vita tutte le sue energie. Un importante contributo allo studio delle piante medicinali fu dato dal Papa Alessandro VII Chigi con la creazione di un nuovo grandioso Giardino dei Semplici alle pendici del Gianicolo, che in meno di un decennio annoverò 3000 piante tra nostrane ed esotiche, divenendo uno degli orti botanici più rinomati d'Europa. In quella sede si tenevano le lezioni di Botanica e di Botanica pratica per gli studenti di medicina della Sapienza. Questa prestigiosa cattedra, che fu per lunghi anni di Giuliano da Foligno (pontificato di Leone X), fu poi occupata da Castore Durante (dal 1586 al 1590), medico illustre, farmacognosta, autore di molte opere di carattere medico e botanico e del celebre "Erbario Nuovo", ponderoso trattato stampato per la prima volta nel 1585 e che ebbe ben otto edizioni fino al 1718. L'"Erbario Nuovo" ebbe un notevole successo grazie anche al fatto di essere utilizzato dagli studenti di medicina che dovevano sostenere l'esame di materia medica e da tutti gli studiosi della materia compresi gli speziali. L'opera è un vero e proprio dizionario enciclopedico di farmacognosia contenente circa 900 specie di semplici contraddistinte dal nome volgare seguito dal nome in lingua greca, latina, araba, francese, spagnola e tedesca. Oltre al corredo iconografico (che è a dir poco affascinante), la morfologia e l'aspetto terapeutico sono al passo con i tempi, come ad esempio lo dimostrano le xilografie e la descrizione della corteccia di China di recente introduzione in Europa.
Dopo Castore Durante tennero la cattedra alla Sapienza Andrea Bacci (1590-1600) e successivamente Giovanni Faber che vi insegnò dal 1600 al 1629; medico insigne, botanico di grande valore, Cancelliere dei Lincei, amico del Cesi e di Galilei, il Faber fu uno dei primi scienziati ad intuire che in una pianta medicinale possono esistere non solo un principio attivo, ma molti e diversi per composizione ed azione fisiologica.
Ci è dato di sapere, grazie alla documentazione giunta sino ai nostri giorni, che già a quell'epoca accanto a piante della flora nostrana, ancora oggi largamente usate in terapia, quali ad esempio (cito le più comuni) altea, angelica, asparago, assenzio, bettonica, camomilla, venivano utilizzate molte piante esotiche, il che sta ad indicare come Roma fosse all'avanguardia per certi tipi di medicamenti, tanto da averli già inseriti nel suo Antidotario; tra queste possono essere ricordate: il calamo aromatico, l'agarico, il benzoino, il bolo armeno, la china. Sempre nell'Antidotario Romano regna sovrana la Triaca; esaltata da medici e pazienti che in essa vedevano una specie di panacea universale, non era la famosa Teriaca importata da Venezia, bensì quella preparata nella bottega dello speziale romano con le droghe reperibili, ove possibile, nella campagna romana e laziale. L'autore del "Trattato dell'Apparato della Teriaca e Ragione dei suoi ingredienti" elenca dettagliatamente i luoghi dove possono essere reperiti i semplici:
- le Cipolle, colte nel mese di luglio, dalli monti Piperno;
- le Rose Rosse, dai giardini del Monte Aventino;
- il Sugo di Liquirizia, dalle campagne d'Ascoli colto in autunno;
- la Genziana, colta nel mese di maggio dai monti dell'Abruzzo, densa, piena, gialla, al gusto prima dolce e poi amaro.
Per l'Oppio e tutti gli altri semplici non reperibili nelle campagne romane circostanti, l'autore ne raccomanda l'acquisto a Venezia.
Concludendo, nonostante le lacune, le imperfezioni e le ripetizioni che quest'opera presenta rispetto ad altri Antidotari, ma che indubbiamente ebbe successo dato il numero delle ristampe, si può dedurre con certezza che a Roma nella prima metà del 600 l'uso delle piante medicinali nella pratica medica quotidiana restò predominante rispetto ad altri farmaci di diversa origine: minerale e animale.

Le spezierie conventuali romane
Nel XVIII secolo esistevano a Roma dieci spezierie tenute da religiosi e ben 35 spezierie tenute da suore . Tra queste la spezieria dei Gesuiti del Collegio Romano, quella di Santa Maria della Scala dei Padri Carmelitani, quella dell'Ara Coeli e quella dei Fatebenefratelli all'isola Tiberina erano molto frequentate anche dalla nobiltà e dall'alto clero e stimate per alcune loro particolari preparazioni come ad esempio l'Acqua Melissa Antisterica, la Triaca, il cerotto giallo di S. Teresa, l'elisir dei Carmelitani, le polveri di corteccia di china dei Gesuiti, l'Acqua Antipestilenziale, le compresse della Salute ed il Balsamo Innocenziano. Il rapporto tra queste istituzioni e la Corporazione degli speziali fu sempre difficile a causa della tendenza delle prime a occuparsi di un campo che non spettava loro; erano, inoltre, preferite a causa del minor prezzo che praticavano nella vendita dei medicamenti. Ciò era dovuto a due ordini di motivi: prima di tutto non erano sottoposte ad alcun peso fiscale e poi non erano costrette ad affrontare tutti gli oneri economici e legislativi cui erano soggette le spezierie private. Gli speziali romani, che attribuivano a loro una delle cause della diminuzione dei guadagni, presentarono diversi memoriali alle autorità competenti in cui descrivevano i motivi per i quali non ritenevano lecito che i religiosi esercitassero la spezieria. Non essendo poi comunque i religiosi soggetti alla vigilanza da parte del Collegio degli Speziali dell'Urbe, non erano tenuti ad osservare l'Antidotario Romano, la tariffa e la "Lista Rerum Petendarum" e potevano a loro arbitrio vendere medicamenti vecchi, scadenti, empirici o pericolosi.
La "Lista Rerum Petendarum", emanata dall'Autorità, era un elenco di medicamenti, suddivisi in 12 categorie, che lo speziale doveva obbligatoriamente detenere nelle proprie officine. Quella del 1744 ad esempio annoverava 99 medicamenti suddivisi in 12 categorie: i Semplici, le Acque, le Conserve, i Cerati, gli Elettuari, gli Oli, le Pillole, gli Sciroppi, i Trochisci, le Spezie, gli Unguenti e gli Spagirici. Il procedimento per la sua compilazione e per la redazione delle norme ivi contenute per le ispezioni alle Officine farmaceutiche, risale ad un accordo del 1576 tra il Collegio dei Medici e il Collegio degli Aromatari di Roma (Collegium Aromatariorum Urbis).
Queste liste erano molto importanti per stabilire gli obblighi imprescindibili dagli Speziali e lo sono ancora oggi per stabilire l'evoluzione del farmaco nei secoli, di cui sono il più evidente indice.
Un decreto della Sacra Congregazione della visita Apostolica del 1665 cercò di eliminare gli abusi che erano sorti nel frattempo . I religiosi, dopo qualche tempo però, riuscirono ad eludere anche il suddetto decreto e "ripristinarono a poco a poco l'abuso" suscitando nuovamente le proteste degli speziali: "In tutti questi decreti, partendo da quelli del 29 agosto 1637, del 21 dicembre 1662 e del 15 marzo 1695, si dice essere proibito a Religiosi di vendere sotto qualsiasi pretesto medicinali eccettuati Triaca, Giacinto e medicamenti chimici, ma che possono darli a benefattori, e ai poveri per carità si che quantunque vengano rinovati li suddetti Decreti". Per quietare le proteste degli Speziali fu promulgato l'11 marzo 1722 un decreto che proibiva ai religiosi non solo la vendita al pubblico di ogni tipo di medicamenti ma anche il Mitridato e la Triaca e consentiva l'esercizio della spezieria solo per i bisogni interni delle comunità religiose. Il decreto fu confermato da un Chirografo di Clemente XII nel 1733 e seguito da un Editto nel 1735 che ribadiva il divieto della vendita dei medicamenti ad eccezione della triaca e del balsamo apoplettico, con l'ordine di tenerlo affisso in tutte le spezierie conventuali affinché fosse portato alla conoscenza del pubblico che, peraltro, essendo nella stragrande maggioranza analfabeta, non lo leggeva, e tutto continuò come prima per altri due secoli fino al 1870.

La Teriaca dei P.P. Carmelitani e quella dei Gesuiti
A Roma questo celeberrimo medicamento del passato veniva prodotto e venduto dalle due maggiori spezierie conventuali: quella di S. Maria della Scala dei Carmelitani e quella dei Gesuiti in via del Caravita. Entrambe la producevano con un solenne cerimoniale alla presenza delle autorità mediche e religiose dell'Urbe. Il preparato doveva avere un invecchiamento di almeno quattro anni prima di essere dispensato. Che cosa era in effetti questo eccelso medicamento prescritto dai medici per circa venti secoli? La tradizione vuole che Andromaco, medico di Nerone, ideasse la Teriaca al fine di concedere al sospettoso imperatore un potente antidoto che lo preservasse da qualsivoglia avvelenamento. L'etimologia del nome rappresenta ancora un dibattito aperto, con il nome triaca comunque ci si riferisce non ad una bensì a diverse composizioni, quali ad esempio la triaca egiziana, la triaca di Soldano di Babilonia e la triaca di Mesuè, composta solo da quattro ingredienti rispetto ai ben più numerosi indicati già da Plinio. Questi ne annovera 57, ognuno con un particolare potere terapeutico: mirra, incenso, spigonardo, valeriana, pepe sono solo alcune delle droghe menzionate, alle quali si affianca la carne di vipera, componente che caratterizza l'efficacia dell'intero preparato. A tal proposito le discussioni maggiori si sviluppano sul genere di vipera che dovesse essere utilizzata; di fondamentale importanza erano, comunque, i seguenti requisiti: il luogo di cattura del rettile, la stagione più adatta ed il sesso. Le vipere venivano private di testa e coda, scorticate, aperte, lavate a lungo e messe a cuocere in acqua pura a fuoco lento per separare la carne dalla spina dorsale. Una volta cotta, la carne veniva pestata in mortaio per ricavare sottili lamelle che venivano messe a seccare all'ombra e in luogo orientato verso il sole di mezzogiorno. L'intera operazione richiedeva quindici giorni al termine dei quali si trasferiva il preparato in vasi di stagno, vetro e talora oro, dove veniva conservato. Venezia fu la prima città a vantare la paternità nella preparazione della Teriaca, grazie ai suoi intensi commerci con l'Oriente; l'originaria Teriaca di Andromaco venne, infatti, denominata in seguito Teriaca di Venezia.
Per quanto riguarda quella prodotta nella Spezieria del Collegio Romano, ne possediamo la composizione del 1603 preparata dal Padre Francesco Vagiolo della Compagnia di Gesù e sottoscritta dal Protomedico Generale di Roma. Raffrontandola con quella dell'Antidotario Romano, notiamo che i componenti ed il procedimento di fabbricazione sono pressoché simili. Tuttavia il prestigio di queste due spezierie conventuali (quella di S.Maria della Scala dei Carmelitani e quella dei Gesuiti) era tale che veniva prescritta dai medici nella maggioranza dei casi.

La china e la Compagnia di Gesù
Dopo la scoperta dell'America molti nuovi semplici vennero introdotti nelle nostre farmacopee. Uno tra questi fu di più larga fama per gli avvenimenti clamorosi che ne accompagnarono la diffusione e cioè la scoperta delle virtù antipiretiche della corteccia dell'albero della china.
La leggenda vuole che nei dintorni di Loxa , regione del Perù, vi era un lago in cui, a seguito di un terremoto, erano caduti degli alberi di alto fusto che vegetavano lungo la riva; l'acqua circostante era divenuta amara e le belve malate che andavano ad abbeverarsi in quel luogo guarivano. La popolazione indigena, notando questo fatto, iniziò a bere quell'acqua per guarire le febbri, con evidente successo. Ben presto si resero conto che il principio amaro era contenuto nella corteccia di quegli alberi e così la corteccia divenne un prodotto comunemente usato nella medicina popolare indigena. Nel 1638 un soldato spagnolo si ammalò di febbri ed un amico indigeno lo guarì prodigiosamente con la polvere della corteccia di quegli alberi; il soldato riuscì ad individuare il tipo di albero ed a somministrare la corteccia ai commilitoni affetti da febbri. Venuto a conoscenza del fatto, il "Corrigidor" di Loxa, Juan Lopez de Canizares, obbligò il soldato a prenderne in sua presenza una certa quantità e, assicuratosi almeno della sua non tossicità, la propose alla Contessa di Cinchon, moglie del Vicerè del Perù, la quale, affetta da tempo da forti febbri, dopo poche somministrazioni guarì. Tornato dopo due anni in Portogallo (1640), il Vicerè divulgò le qualità curative di questa corteccia misteriosa che inizialmente fu denominata "polvere della contessa".
Direttamente dal Perù la corteccia di china faceva la sua apparizione a Roma nel 1632. Il gesuita P. Alonso Messias Vargas (1557-1649), inviato da quel lontano paese con l'ufficio di Procuratore per informare il Generale dell'Ordine sullo sviluppo delle missioni ivi stabilite, aveva gelosamente custodito nel viaggio il prodotto esotico, nel desiderio di presentarlo a Roma quale ambita primizia. Finemente polverizzata, o stemperata in decotti, guariva con straordinaria rapidità le febbri intermittenti o palustri, quelle stesse che noi oggi chiamiamo malariche.
Secondo un'altra leggenda invece il rimedio, per lungo tempo negato ai conquistatori spagnoli, era stato somministrato per la prima volta da empirici del paese ad un missionario che, per il suo zelo apostolico, si era guadagnato l'affetto delle tribù locali. Il missionario aveva poi identificato l'albero miracoloso, denominato dagli indigeni quina-quina (corteccia delle cortecce).
Sono questi gli anni in cui a Roma la terapia con la corteccia di china ha un'esordio poco fortunato. A causa delle scarse cognizioni botaniche non tutto il materiale offerto apparteneva all'albero genuino, ragion per cui il rimedio risultava incerto e fallace. Quando tredici anni più tardi, il P. Bartolomè Tafur (1589-1665) portò in Roma nuove quantità della droga, questa volta accuratamente selezionata, la fama della corteccia, chiamata nella sua nuova apparizione "china-china", venne ristabilita. Nello stesso anno a Roma si celebrava l'ottava congregazione generale per la nomina del capo supremo della Compagnia di Gesù; i gesuiti convenuti a Roma dalle varie province apprendevano dal confratello peruviano gli effetti prodigiosi del medicamento e ne propagavano le conoscenze in tutti i paesi. Per tale motivo il rimedio febbrifugo ricevette anche il nome di polvere dei gesuiti.
La necessità del farmaco divenne quanto mai urgente nella metà del secolo XVII, quando si ebbe una delle maggiori recrudescenze di malaria in tutta Europa. Il desiderio del rimedio, da poco conosciuto, era divenuto quasi spasmodico. Purtroppo i religiosi non avevano intrapreso un commercio regolare della china, limitandosi a spedizioni occasionali e sporadiche. Approfittavano bensì di una tale situazione molti speculatori per chiedere al momento opportuno prezzi esorbitanti, quando non ricorrevano addirittura alle frodi. La spezieria del Collegio Romano, che riceveva la merce direttamente dai religiosi, poté disporne ad uso del pubblico, tranne i periodi di assoluta mancanza del prodotto. Era venduta a condizioni eque e distribuita gratuitamente ai poveri.
Non si deve credere però che la diffusione del rimedio procedesse senza ostacoli; ovunque sorsero opposizioni per motivi più o meno reconditi, abilmente simulati da cavilli dottrinali. Nell'Inghilterra, ad esempio, ancora fervida di passione per il recente scisma, le polveri della corteccia furono apostrofate, in odio ai gesuiti, come le polveri dell'Anticristo, ed aborrite dai fanatici.
Prese le difese della china un medico genovese, Sebastiano Bado, che dopo un lungo tirocinio di studi a Roma, tornato in patria nel 1652, aveva assunto l'ufficio di Primario del grande Ospedale del Pammatone, e di quello di Santa Maria della Misericordia. Agli avversari della corteccia egli rispose con una comunicazione preventiva nel 1656 e con un'opera più estesa nel 1663. Il suo testo va ricordato come la pietra basilare per tutte le monografie che seguirono e conferma il trionfo decisivo della corteccia, confermato dal silenzio dei contraddittori.
Accanto al Bado si deve menzionare un'altra figura di medico ligure, nativo di Rapallo, Girolamo Bardi (1600-1667), divenuto poi sacerdote. Entrambi contemporanei ed amici illuminarono di luce poetica gli esordi agitati della corteccia "china-china", cui agevolarono con ugual fede il trionfo. Roma iniziava questa opera di difesa della china, sotto gli auspici anche di due personaggi, mossi entrambi da una vivida ispirazione di bene: Gabriele Fonseca, Archiatra di Innocenzo X ed il Cardinale Giovanni de Lugo , teologo illustre, originario di Madrid. Mentre il primo patrocinava l'uso del medicamento, l'altro si evidenziava per le distribuzioni generose ai poveri di Roma e del contado. Tra i successi più notevoli conseguiti da Fonseca mediante l'uso della "china-china" figura la guarigione del Cardinale Flavio Chigi, nipote di Alessandro VII. Il Cardinal de Lugo, benché fervido nell'opera di soccorso, concedeva invece con illuminata prudenza la polvere di "china-china" soltanto su presentazione di attestati medici.
Il fervore manifestatosi in Roma fin dalla prima apparizione del rimedio non rallentò con il progresso dei tempi. Alla fine del secolo XVII tuttavia perdurarono ancora le ostilità; Giovanni Maria Lancisi (1654-1720), archiatra apprezzato come il più illustre malariologo del tempo, aggiunse nuova fama al rimedio e ne celebrò le virtù con espressione di lirico entusiasmo. Negli anni successivi Giacomo Folchi, professore di materia medica nell'Università Romana, si applicò con particolare diligenza a distinguere le varietà botaniche della "china-china", di cui raccolse, durante un viaggio, oltre quaranta differenti esemplari, descrivendoli secondo l'intensità del potere febbrifugo. A lui spetta il merito di aver fatto conoscere a Roma l'alcaloide contenuto nella corteccia, il chinino .
Il farmaco inizialmente veniva somministrato in forma di infusioni o per mezzo di polveri ottenute dalla fine triturazione della corteccia.
Le polveri più accreditate in Roma erano comunque quelle provenienti dalla spezieria di Santo Spirito e dalla Spezieria dei Padri Gesuiti del Collegio Romano.

La Spezieria del Collegio Romano
Secondo il costume delle maggiori case religiose, i Gesuiti avevano una farmacia propria nel Collegio Romano. Essa era situata in quella parte dell'edificio che corrisponde sulla via del Caravita, nei locali al piano terreno prossimi alla facciata del tempio Ludovisiano. Qui il rimedio ebbe la sua prima sede in Roma, sotto la vigile tutela di un cardinale.
La spezieria del Collegio Romano, che acquistò una fama storica è oggi scomparsa. Il Padre gesuita Antonio Bresciani ne ha lasciato una pittoresca descrizione: "Ella è composta - scrive - di tre camere grandi tutte ornate di armadioni massicci a intagli sui sei piastrelli in fra le basi e le cornici. In certe nicchie ha vasi grandi pe' lattovari, e son di porcellana giapponese e cinese ricchissimamente screziate di rabeschi e dorature forbitissime. I ceppi de' mortai son di porfido e i mortai di bronzo con graziose imboccature e tondini bruniti come l'oro". L'adiacente giardino, sul quale oggi corrisponde la grande sala della ex biblioteca Vittorio Emanuele, è così descritto da Padre Bresciani: "Questo picciol giardino ha in mezzo quattro fontane d'alto schizzo che ricascano in una bella tazza, entro cui guizzan certi pescetti argentini, persi e dorati. Le aiuole son d'erbe ad uso della spezieria, e le sorge da un lato la più bella palma che si vegga in Roma. Gli archi del chiostro, che aggira il giardinetto, sono ombrati di verdi spalliere d'oleandro a fiori candidi e vermigli, che formano una vaga tappezzeria intorno".
In esecuzione della legge del 1873 sulle Corporazioni religiose, i Gesuiti furono allontanati dal Collegio Romano nel 1872-73, la spezieria fu chiusa e la ricca suppellettile e le memorie storiche disperse.
I locali presentano ancora tracce dell'antica eleganza nella ornamentazione delle lunette che incorniciano la volta a vela, ed ove sono figurati soggetti mitologici relativi alla Medicina. Al centro della volta domina un grande affresco si S. Ignazio.

La Spezieria di Santo Spirito
L'ospedale di Santo Spirito fu indubbiamente tra i primi ad accogliere il rimedio della china.
Gaudenzio Brunacci, medico in detto ospedale, accerta l'efficacia della china per diretta esperienza, e narra che gli infermi colpiti da forme malariche miti, quali in passato non erano ammessi al ricovero, venivano ormai anch'essi accolti e curati con la somministrazione delle polveri, e in breve tempo uscivano completamente guariti. Il medesimo autore informa che notevole era al suo tempo, cioè nel 1660, il consumo della droga. Tutto ciò era la conseguenza naturale dello stimolo impresso alla diffusione del rimedio del Cardinale De Lugo, il quale con il suo intervento personale aveva lasciato un ricordo duraturo nella spezieria dell'ospedale.
Nell'officina della spezieria va ricordata la presenza di una grande macina. Essa era adibita alla frantumazione e polverizzazione della corteccia, mossa da una cascata d'acqua proveniente dal fiume Tevere che precipitava nella sottostante cantina. L'apparecchio era occultato da un'artistica costruzione in legno a foggia di tempietto bramantesco. Si trattava ormai di un cimelio venerando che attestava, con le sue dimensioni, la vastità del male e la provvida misura del soccorso . A motivo della fine triturazione ottenuta dalla potente macina, le polveri di china più apprezzate erano quelle provenienti dalla spezieria di S. Spirito.
In conclusione, si può senza dubbio affermare che nella Roma del XVII secolo l'uso delle piante medicinali nella pratica medica quotidiana restò predominante nonostante le teorie di Paracelso e l'avvento della jatrochimica. C'è da rilevare che ancora oggi le piante medicinali compaiono in maniera rilevante nelle specialità che vengono prescritte nelle terapie delle più svariate patologie.


Prof. Leonardo Colapinto




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