MEMORIE MEDIEVALI NEI "SEMPLICI" SALERNITANI

di Paola Capone,
prof. di Storia dell'Arte moderna, Dipartimento di Sociologia e Scienza della Politica,
Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Salerno


PREFAZIONE

Dal 1995, anno di pubblicazione di Mater herbarum , la tradizione a stampa del Circa instans di Plateario, del Liber Pandectarum medicinae di Matteo Selvatico e del Regimen Sanitatis Salernitanum, i testi salernitani sui "semplici" e sulle loro applicazioni terapeutiche, è stata oggetto di numerose ricerche iniziate con la schedatura delle edizioni presenti nelle maggiori biblioteche italiane ed europee. Disegnare il cammino di questi tre scritti vuol dire non solo incontrare la cultura botanica sviluppatasi a Salerno, ma anche delineare un quadro esaustivo di una parte della storia della medicina. In essi, infatti, confluiscono tutte le conoscenze della materia medica greca, romana, ebraica ed araba, con alcune testimonianze che non possono accreditarsi a nessuna di queste tradizioni in particolare e delle quali tratteremo in questo studio. Sulle componenti culturali del Regimen Sanitatis Salernitanum o De conservanda bona valetudine o Schola Salernitana e sulle relative edizioni a stampa uno studio è stato recentemente pubblicato e lo stesso si propone questo lavoro per i due scritti della tradizione botanica salernitana dopo la scoperta di Gutemberg, dei quali si presenta qui un parziale risultato. La storia della medicina e della farmacopea medievale, infatti, ha conosciuto da qualche anno anche in ambito salernitano un rinnovato interesse con analisi rivolte verso molteplici prospettive che non coinvolgono solo i saperi ad essa inerenti, ma anche la storia della cultura in generale, la storia dell'arte, dell'economia, dell'ingegneria, della mentalità in ogni possibile declinazione. A livello internazionale cospicui sono stati i progressi nella definizione storica di queste discipline, nonché del ruolo del medico e del "farmacista" nella società del loro tempo. In questo fervido clima di studi, a Salerno è iniziato da qualche anno un recupero di materiale bibliografico e iconografico, conservato attualmente presso il palazzo Capasso, attiguo al Giardino della Minerva, sede dell'Archivio Storico della Botanica "salernitana" , del quale chi scrive è il direttore. Questo archivio virtuale, perché i materiali in esso custoditi sono microfilm o diapositive provenienti dalle più prestigiose biblioteche europee o da collezioni private, lentamente va prendendo consistenza con alcune importanti acquisizioni finanziate dal Comune di Salerno. Finalità dell'Archivio è la raccolta di testi di argomento storico-botanico e la sua pubblicizzazione attraverso sistemi multimediali, un progetto oggi realizzabile per la informatizzazione dei materiali da parte di molte istituzioni e per i grandi progressi delle tecnologie.

1. IL CIRCA INSTANS E LE IMMAGINI DEI FRONTESPIZI

La materia medica salernitana, di cui il Circa Instans è documento centrale, si è sviluppata in uno scenario davvero unico, quello di una eclettica comunità secolare di medici praticanti. Questa comunità ha prodotto un corpus considerevole di letteratura medica a partire dal XII secolo, una letteratura che rappresenta, così come la stessa Scuola di Salerno, l'incontro e l'amalgama di diverse tradizioni mediche: quella greco-romana, quella araba, quella giudaica e quella medievale. Proprio per queste caratteristiche, il Circa Instans va esaminato nel contesto del sapere medico del secolo XII, senza tralasciare la precedente tradizione. Esistono molte copie del Circa Instans e nessun documento originale. Trascritto molte volte, tradotto in francese, inglese, tedesco, olandese, danese, provenzale ed ebraico, ciascuna copia contiene ciò che potremmo definire il nucleo del Circa Instans, vale a dire che esistono alcuni elementi comuni a tutte le versioni di questo erbario che offre un elenco di "semplici", 276 in alcune edizioni, fino ad un massimo di 470 nelle più estese . Persino le copie più corrotte contengono qualcosa del testo originale. Nel 1837 a Breslavia una collezione di manoscritti salernitani, trentacinque trattati raccolti sotto il titolo di Codex Herbarius , venne all'attenzione di August Henschel. Uno di questi è un Circa instans con la descrizione di 432 sostanze. Il ritrovamento riaprì la problematica sulla stesura originale del testo, una problematica non ancora risolta . Il Circa Instans fu sostituito dagli erbari più vasti stampati nel secolo XVI, ma, prima di sparire del tutto dalla letteratura erboristica occidentale, conobbe un periodo di diffusione, in forme diverse, in tutta Europa : a parte il De Materia Medica di Dioscoride, nessun erbario ha avuto un ruolo così predominante nella storia della letteratura erboristica. La composizione del Circa Instans è di solito attribuita a Plateario, e più precisamente a Matteo Plateario, infatti, poiché egli scrive un glossario sull'Antidotario di Nicola intorno al 1140 e muore nel 1161, si ritiene che egli possa essere la figura più calzante con l'autore dell'opera, presumibilmente datata a questo periodo. Questo scritto si presenta come un trattato di materia medica e terapeutica, le varietà vegetali esaminate sono in particolare quelle presenti nell'area campana e lucana. E' un dizionario dei "semplici", poco rigoroso per l'ordine alfabetico, che definisce la funzione farmacologica delle piante e dimostra l'utilità dei medicamenti composti; passa in rassegna l'appartenenza ad uno dei quattro gradi: caldo, freddo, umido o secco ; descrive brevemente quale parte è utilizzata per il medicamento, albero o arbusto, erba o radice, fiore, semenza, foglia, pietra o alcuna altra cosa; elenca eventuali sinonimi greci o latini; enumera le qualità del medicamento, ricorrendo anche a citazioni autorevoli, e ne dà la posologia. Un'attenzione particolare è inoltre dedicata al problema delle droghe e alla loro sofisticazione, con una trascrizione di numerose ricette, un invito e una guida a vigilare su eventuali frodi da parte di coloro che attendono alla preparazione dei farmaci . Il prologo , presente nel manoscritto più innovativo dal punto di vista iconografico, il Tractatus de Herbis, manoscritto Egerton 747 della British Library, illustra chiaramente le finalità dell'opera: "In quest'opera ci dedicheremo alla trattazione delle medicine semplici. La medicina semplice è quella che viene utilizzata nello stato in cui viene prodotta dalla natura come i chiodi di garofano, la noce moscata e altre sostanze simili, o quella che, sebbene trasformata attraverso un determinato procedimento, non entra in combinazione con altre medicine come i tamarindi, che vengono triturati dopo che è stata eliminata la corteccia, e l'aloe, prodotto della cottura del succo ricavato da un'erba. E' possibile però porre un quesito non privo di senso, ovvero perché siano stati inventati i composti medicinali, quando ogni virtù presente nei composita può essere ritrovata nei semplici. La medicina si crea in base alle cause della malattia, ovvero in base all'eccesso o alla mancanza di umori, alla perdita e alla debolezza delle forze, all'alterazione delle qualità del corpo o al dissolversi dei suoi nessi interni. Si sono quindi scoperte medicine semplici che sciolgono le costipazioni, riequilibrano le perdite, restringono i flussi, rinforzano in caso di debolezza, modificano ciò che è alterato, consolidano ciò che è rilassato. Le ragioni per cui le medicine entrano in combinazione l'una con l'altra possono essere molte, ovvero l'acutezza del male, l'opposizione e la disposizione contraria delle membra, l'importanza del membro stesso e la violenza del rimedio. Una malattia acuta come la lebbra, l'apoplessia o l'epilessia può, infatti, essere curata solo a fatica (o non essere curata affatto) con una medicina semplice, ma bisogna intervenire con medicamenti composti di modo che diventi più semplice guarire l'impeto del male grazie all'aumento della capacità curativa dei semplici stessi. Inoltre, nel caso in cui uno stesso corpo soffra di malattie in conflitto tra loro come le febbri e l'idropisia, la medicina va necessariamente ricavata da sostanze naturali sia calde sia fredde, perché riesca a contrastare malattie contrarie con caratteristiche contrarie. Non è possibile infatti reperire una ed una sola medicina semplice che possieda caratteristiche opposte tra loro. Inoltre, poiché vi sono membra che hanno caratteristiche in conflitto tra loro, come ad esempio lo stomaco che è freddo ed il fegato che è caldo, la medicina deve essere composta, in modo da poter modificare qualità opposte con virtù opposte. Quando infatti un organo importante come il fegato, che è caldo, soffre di indurimento tumorale, la medicina deve essere ricavata da una sostanza calda che consumi quanto vi sia di superfluo e da una astringente che rinforzi un organo così importante. Il calore consuma infatti un organo nobile, debilitandolo; quindi non va data una medicina troppo violenta come la scammonea, l'elleboro e sostanze simili, se non in combinazione con altre sostanze medicinali in grado di attenuare la loro violenza. Nel trattare ogni singola sostanza medicinale bisogna in primo luogo descrivere la sua complessione, in seguito indicare se si tratta di un albero, di un frutto, di un arbusto, di un'erba o di una radice, o di un fiore o di un seme o di una foglia, di una pietra, di un succo o di qualche altro elemento, poi quante specie ve ne siano, dove sia possibile trovarla, quale sia la migliore specie e come nasca, in che modo si può riconoscerne la sofisticazione, come e quanto a lungo sia possibile conservarla, quali virtù possieda ed in che modo vada preparata; e questa trattazione procederà in ordine alfabetico". La prima edizione a stampa del Circa Instans è ferrarese del 1488, la seconda veneziana del 1497 e recita: "Incipit liber de medicine secundum Platearius dicitur Circa instans", questo l'inizio, "mandato et expensis Octaviani Scoti, civis modoetiensis", una miscellanea affidata a Boneto Locatelli che insieme a Bernardino Vitali, ai Bindoni e a Vincenzo Valgrisi sono tra coloro che hanno pubblicato opere scientifiche e mediche di particolare rilievo, tra le altre, anche le Pandette di Matteo Silvatico . "Incipit liber de simplici medicina secundum Platearium, dictus Circa instans", così recita l'inizio del testo che ha trovato in Michele de Capella, "facultatum doctoris prestantissimus", un curatore dell'additio presente in varie edizioni pubblicate a Lione dove il Circa instans viene stampato ripetutamente . I frontespizi più interessanti, del 1525 (fig.1) e del 1536 (fig.2), presentano entrambi una tipologia analoga: in una cornice istoriata con elementi mostruosi e floreali il titolo o i titoli vengono posti al centro; nel primo vi sono raffigurati Giovanni Plateario , Giovanni Serapione e Pietro Ispano, disposti nel tipico atteggiamento del maestro in cattedra con i libri, un'iconografia presente anche in alcuni frontespizi del Regimen salernitanum; nell'altro la marca tipografica di Nicola Petit, un albero frondoso con il motto "Concordia nutrit amorem", campeggia al centro; nel fregio in basso si apre la veduta di un castello e di alcuni monti con un piccolo uomo in cammino, un piccone in spalla.

2) Le Pandette

Il Liber Pandectarum medicinae o Opus pandectarum medicinae, conosciuto ai più col semplice titolo di Pandette è uno dei più noti antidotari del Medioevo, definito da De Renzi "una compilazione di materia medica, ossia una specie di dizionario de' semplici, con la indicazione dei loro usi, e con diligenti ed esatte ricerche intorno alla virtù delle erbe....." . La formazione culturale del suo autore, Matteo Silvatico, medico di una famiglia salernitana, si intreccia con gli epigoni del suo tempo e ben oltre le presenze napoletane, come testimoniano i collaboratori delle Pandette, tra i quali è annoverato quel Pietro d'Abano, docente di medicina a Padova, uno dei rappresentanti, con Arnaldo di Villanova, di un'intensa attività di traduzione, legata alle esigenze di quel magistero . La fama di Matteo è viva già tra i suoi contemporanei, come testimonia, a distanza di pochi anni, Giovanni Boccaccio, che lo conobbe alla corte napoletana e che, nel Decamerone, racconta: "ancora non è gran tempo che in Salerno fu un grandissimo medico in cirugìa, il cui nome fu maestro Mazzeo della Montagna", il quale aveva preparato un'acqua "adoppiata" per addormentare un paziente a cui doveva amputare una gamba . Mazzeo della Montagna è Matteo Silvatico e poco importa il resto della novella o la sua veridicità: questa citazione è sufficiente come testimonianza del ricordo che il poeta, nella stesura del Decamerone, intorno agli anni cinquanta del XIV secolo, pur avendo lasciato la corte napoletana da qualche tempo, conserva ancora di questo "grandissimo medico". Matteo inizia a lavorare alle Pandette nel 1297 e nel 1317 dedica a Roberto d'Angiò questa opera ponderosa, ristampata fino alla fine del XVI secolo, epoca in cui l'editoria non trova più conveniente riproporne nuove edizioni. La botanica, infatti, a metà del '500 ha fatto passi da gigante: si pensi che è del 1544 il commento di Mattioli a Dioscoride . Le poche informazioni sulla vita e sulla formazione di Matteo sono deducibili dalle annotazioni personali presenti in alcuni capitoli delle Pandette. Il testo è scritto in età matura, come riferisce lo stesso autore (hkas-lactuca c. 361): alle notizie botaniche della lactuca si aggiungono, infatti, alcune considerazioni sulla differente funzioni di questo "semplice", usato in gioventù per il riscaldamento dello stomaco e in età avanzata per l'insonnia, dalla quale lo stesso Matteo è oppresso. L'autore possiede un giardino a Salerno, vicino a una fonte graziosa, dove coltiva i "semplici", anche quelli esotici, come dichiara nel capitolo della colocasia (culcasia c. 196), erba nota in Egitto e Siria. In seguito a questa citazione e al reperimento di numerosi documenti conservati alla Badia di Cava e di un manoscritto del XVIII secolo, presente nella Biblioteca Provinciale di Salerno , è stato possibile indicare nel quartiere di Plaium Montis il luogo dove Silvatico opera e attribuire, con buona probabilità, la proprietà del Giardino della Minerva alla famiglia Silvatico, dunque, a considerarlo luogo delle sue sperimentazioni. Lo stesso Matteo nelle Pandette racconta alcuni particolari della sua vita: egli è sopravvissuto a una carestia (veccia c. 692), nel 1297 è con sicurezza a Salerno, (bruculus c. 109) dove è testimone di un'invasione di locuste; ha viaggiato molto, come racconta: Sardegna e Tunisi (pinas c. 246), Germania (lapis crystallus c. 416), regione sveva (lapis draconites c. 420), Cordova (lapis frigius c. 429), Libia, Britannia, Anglia (lapis gagates c. 431), Mar britannico verso le Fiandre e la Theotonia (lapis margarita c. 452), Francia (lapis specularis c. 483). Le sue frequentazioni annoverano ogni genere di persone: da un "ignorante" greco (condros c. 179) a un amico romano (fasilum c. 223), incontra spagnoli e arabi (maaleb c. 524), ascolta le descrizioni di viaggiatori e ha avuto, nei suoi numerosi spostamenti e nei suoi molteplici incontri, la possibilità di vedere vegetali che non esistono a Salerno (headi c. 349), frequenta medici parigini (lapis topacion c. 486). Egli sa anche sperimentare (cantarides c. 133, barba silvana c. 78, torpido piscis stupefactivus c. 26O, raffanus c. 273, crocus c. 370) e discostarsi dalle altrui affermazioni, talvolta smentirle (apomel c. 50, vitrum c. 193), o suggerire nuove cure. Fa ricerche sul sonno (lactuca c. 361), assiste ad esperimenti sugli uccelli (lapis celidonius c. 407), frequenta i negozi che preparano le medicine "semplici" (pistacia c. 592). Da questi pochi dati privati emerge la personalità di Matteo: un erudito desideroso di mettere ordine nel mare magnum dei differenti saperi che fanno capo ai "semplici", ma, pur restando fedele alle metodiche di studio dei suoi tempi, talvolta sa essere critico, con osservazioni dirette sugli elementi naturali o attraverso il confronto con altri personaggi (lo stupido greco, i medici di Parigi, i viaggiatori spagnoli o arabi) per verificare le proprie conoscenze. Matteo non smentisce mai la sua vocazione di scienziato e non concede nulla al colore e all'aura che accomunano il medico al guaritore . Nelle Pandette sono esaminati 721 "semplici" di cui 487 di origine vegetale, 157 minerale, 77 animale e 3 non identificati, preceduti da indici in ordine alfabetico, i cui lemmi fanno riferimento ad un uso farmacopeico e alimentare, ad organi del corpo umano, a malattie, a preparazioni farmaceutiche. Per tutti i "semplici" si snoda la stessa sequenza che comincia con la già citata descrizione e continua con la definizione della complexio, più volte ripetuta dai vari autori. Essa colloca il "semplice" in una precisa dimensione fisica la quale assicura gli specifici compiti antagonisti delle cause e degli effetti della malattia. Alcuni sono efficaci in molti morbi e disfunzioni: per ciascun caso viene pazientemente e diligentemente riportata la terapia. Quando lo ritiene necessario. Matteo discute identificazioni e denominazioni tradizionali, proponendo le proprie, a partire dalla formula "secundum translationem nostram" dei testi greci; egli dunque confuta errori di traduzione o di attribuzione di nomi, basandosi su dimostrazioni logiche e sull'autorità dei Maestri, nonché sulla personale, diretta esperienza più volte citata . Matteo elenca tutti i collaboratori, da lui definiti "coevi": Pietro d'Abano, Dino de Garbo, Sestile di Bonaventura, Francesco Mayroni e Nicola de Lyra, a questi si aggiunge Simone di Genova - "dovunque per l'alfabeto" dice il Silvatico, cioè curatore degli indici, in arabo, greco e latino. Le ragioni della scelta del lemma per l'inizio di ciascun capitolo sono, per ora, purtroppo, prive di spiegazione: tra le ipotesi attendibili c'è che l'autore abbia preferito la definizione preminente nell'uso corrente o, come egli stesso ci dice (botris c. 105), che la irreperibilità del "semplice" in area campana abbia reso necessario importare da altre lingue la sua designazione . Dare ordine alla nomenclatura non è solo un esercizio scolastico, è il desiderio di unificare la "babele" generata dalla mancata corrispondenza terminologica fra le scuole, spesso distanti per presupposti teorici e pratiche d'intervento. Matteo si trova a citare tutto il sapere di una tradizione complessa, costituita da numerosi autori, tra i quali è difficile costruire una gerarchia: Ippocrate, Galeno, Teofrasto, Plinio, Dioscoride, Teodoro Prisciano, Guarimpoto, Aben Mesuay, Isaac Benaram, Avicenna (limon c. 507) e soprattutto Serapione il Giovane, per limitarci ad alcuni nomi più frequenti nel suo testo, evidentemente reperibili nella sua biblioteca di Salerno. Egli parla anche di libri tradotti dall'arabo (condros c. 179), lingua che non padroneggia e per la quale necessita di traduzioni. Dopo l'elenco dei termini nelle tre lingue, ciascun capitolo delle Pandette si apre con una sua introduzione alla quale fa seguito una fedele sintesi delle notizie ricavate dai testi delle autorità. La descrizione, però, manca per le erbe note a tutti. Accanto alla raccolta dei dati sono rilevabili i frutti della curiosità di Matteo per i fenomeni naturali. Egli ordina, in una sequenza alfabetica, tutti i "semplici" vegetali, animali e minerali, in sintonia con l'ordine del mondo. Ne risulta un dizionario intervallato dai capitoli, indispensabile per la lettura agevole dei contenuti da parte di un lettore moderno e di chi non sia un perfetto conoscitore della materia, perché comprende termini tecnici assai eterogenei nelle tre lingue, per i quali viene proposta una spiegazione di varia ampiezza: indicazioni etimologiche, a volte spropositate, sui termini arabi e greci, sinonimi dei "semplici" trattati nei capitoli; brevi descrizioni di quelli non inseriti nei capitoli e del loro uso, nomi di malattie e loro caratteristiche, preparazioni farmaceutiche e processo per ottenerle . Egli non entra all'interno delle cose, non tenta di svelare il loro aspetto nascosto, ma le dispone per meglio studiarle; riporta tutta la materia da lui conosciuta, la più antica e la più recente, la cultura greca, quella latina e quella araba. Nel mondo non esistono segreti, pare suggerirci Silvatico, ma animali, piante e minerali che attendono di essere classificati, quasi sempre la loro descrizione si esemplifica con la similitudine di uno che è più facile da reperire. Valga per tutti l'esempio della avellana indica o faufel: è molto simile alla noce moscata nella forma, egli dice, ma non nell'odore e nel sapore (c. 259). Il percorso delle Pandette si sviluppa, in sintesi, attraverso una costruzione sempre uguale: partendo da notizie obiettive, Matteo antologizza le fonti, le confronta, le rielabora, le verifica e, se è il caso, le smentisce. Silvatico tratta in maniera differente la materia vegetale rispetto a quella dei lapides. La sua guida per questi ultimi è per lo più Alberto Magno, raramente Serapione, Plinio e Dioscoride, ma alla scientificità, priva di ogni possibile metafora "verde", si sostituisce, nei lapides una visione magica: il lapis aquile, pietra indiana, favorisce il parto e Matteo l'ha sperimentato sospeso al braccio sinistro (c. 398), il lapis gagates resiste ai demoni e ai malefici e difende la verginità (c. 431), il lapis onix portato al dito arreca tristezza e timori (c. 459), il lapis topacion, di cui un medico parigino ha sperimentato "ai nostri tempi che la mano che lo contenga, messa in acqua bollente, non si ustiona" e, inoltre, chi lo porta al braccio sinistro, non teme la follia (c. 486). Queste notizie testimoniano la convivenza ancora alla fine del 1200 di sperimentazioni mediche e di retaggi magici, ulteriormente confermati da alcuni capitoli del De vita philosophorum di Arnaldo di Villanova. Il Liber Pandectarum medicinae , opera ponderosa sotto il profilo tipografico, viene pubblicato per la prima volta in contemporanea a Napoli e a Bologna o Modena, nel 1474, da Bertoldo Rijng su indicazione del medico napoletano Angelo Catone Sepino. Fino al 1541, le Pandette sono state stampate 18 volte, soprattutto in Italia e in particolare a Venezia , tranne un testo del 1480 che vede la luce a Strasburgo e tre edizioni a Lione . Quest'interesse per il Liber Pandectarum è senz'altro dovuto al suo utilizzo da parte di studiosi di alcune università come Padova e Bologna. Intorno al 1480 anche a Vicenza un "Matheus Moretus Brixiensis, Bononie in medicina et astronomia legente", dedica al cardinale mantovano "Franciscus de Gonzaga" l'Opus pandectarum medicine emendatum. E l'epistola dedicatoria di Matteo Moreto è presente anche nelle edizioni veneziane del 1480 e del 1488. Ancora Matteo Moreto e il cardinale Francesco Gonzaga appaiono nel testo veneziano del 1492, ma gli indici sono ordinati "per Georgium de Ferraris de Monteferato artium et medicine doctorem" e, dopo il simbolo dell'editore-stampatore Bernardino Fontana - una croce potenziata con le sue iniziali - una poesia al lettore scusa il responsabile per gli eventuali errori e lo loda per il lavoro svolto. Nel 1498, ancora a Venezia, ma con Ottaviano Scoto e Boneto Locatelli, lo stesso "de Ferrarys de Monteferrato" agli indici "addit sinonyma succinte que deerat [sic!] Symonis Januensis". Tutte le edizioni sono in folio, spesso di pregevole rilegatura, a caratteri gotici librari e, fino al 1512, senza la parte dell' Additio. Simon Bevilacqua pubblica a Nouis (Novi Ligure) una edizione delle Pandette "necnon etiam tabula addita per [...] Baptistam Sardum qui per amovendis erroribus non paucis in opere Pandectarum comptis maxima cum diligentia opus hoc castigavit". A Lione le edizioni del Silvatico datate al 1534 e al 1541 sono corredate da preziosi frontespizi di grande raffinatezza. La prima edizione è di "Vincentius de portunarijs" che aveva già curato nel 1524 l'opera di Plateario: le Pandette si arricchiscono ora anche "insuper anotationibus capitulorum et authorum nuper additis per Dominum magistrum Dominicum Martinum de sospitello". Additio e Anotationes sono presenti in entrambe le edizioni. Il frontespizio del 1541 (fig.3) presenta centralmente le indicazioni dell'opera. Ai lati una cornice composta da elementi floreali e da putti. Già nella titolazione si evince una ricerca stilistica diversa dai frontespizi coevi: le lettere montate a triangolo rovesciato non chiudono lo spazio, ma tentano un gioco compositivo. Nella parte superiore un Crocifisso sorretto dall'Eterno Padre, la colomba dello Spirito Santo poggiata sul braccio corto della Croce e gli angeli ai lati tra le nuvole; al di sopra campeggia la scritta "Sancta Trinitas Unus Deus. Miserere Nobis"; in basso, sul bordo inferiore della cornice, la Sacra Famiglia e, nel bordo superiore sinistro, un angelo col velo della Veronica. L'incisore pone una grande attenzione alla costruzione dello spazio, tagliando il corpo del Cristo, le gambe del Padre e la Croce, per creare una volontaria illusione di sfondamento nella parte posteriore della scritta del frontespizio. E' una composizione ricercata che sottolinea il legame tra religione e vita: al di là della bontà della cura, infatti, per il mantenimento della salute bisogna avere fede e pregare, un'idea che l'aforisma della salvia, presente nel Regimen sanitatis, ben illustra: "Cur moriatur homo cui salvia crescit in horto? Contra vim mortis non est medicamentum in hortis". Da un punto di vista meramente iconografico maggior interesse suscita l'opera nell'edizione di Torino per i tipi di Antonio Ranoto, del 1526. In essa sono presenti due incisioni che offrono una descrizione dettagliata dei costumi dell'epoca. Nel frontespizio, al di sopra del titolo, sono rappresentati tre medici che passeggiano in un campo (fig.4). Matteo Silvatico è, presumibilmente, colui che mostra i fiori ai due giovani allievi al suo fianco: l'atteggiamento, gli abiti e il copricapo, oltre alla centralità della figura confortano questa ipotesi. Possiamo leggere questa rappresentazione come una lezione in loco sui "semplici", cioè in aperta campagna, in mezzo alla natura. Qui alcuni giovani raccolgono piante, una donna è seduta con i fiori in grembo. In fondo sui monti due castelli chiudono la scena, in una rara visione di esterni legata all'ambiente naturale dei "semplici". La seconda incisione (fig.5), mostra i dottori al letto dell'ammalato. L'interno della stanza è raffigurato con particolari molto precisi: la pedana sulla quale è sistemato il letto, il pavimento a scacchi e il cagnolino, il baldacchino, l'apertura dell'arco verso uno spazio esterno alla stanza, la bifora e la finestra rotonda, le colonne e i pilastri in primo piano che aprono la scena. Una cura particolare è rivolta agli abiti dei dottori e ai loro copricapo. Il medico più vicino all'ammalato, che gli tasta il polso, ha un abbigliamento che qualifica il suo rango superiore. Alla metà del XVI secolo, però, l'editoria non trova più interessante ristampare queste due opere per gli evidenti progressi fatti dalla medicina e dalla botanica. Nel caso del Circa instans l'oblio è tale che non viene citato neanche nelle prime storie della medicina del secolo scorso da Leclerc e Friend . Le possibili cause di questo oblio sono legate anche ad alcuni preconcetti che hanno accompagnato, per lungo tempo, lo studio degli erbari.

3) ORIGINE DEGLI ERBARI SALERNITANI

Il Circa instans e il Liber Pandectarum medicinae sono essenzialmente erbari, ma che cosa è un erbario? Un erbario è un trattato sulle piante utili, ma comunemente, sui dizionari, per erbario si intende un'opera in cui sono descritte le piante medicinali e le loro proprietà, oppure una collezione di disegni di piante, o ancora una raccolta di piante essiccate e pressate in modo opportuno, individuate e classificate scientificamente. Il suo scopo è insegnare al lettore a identificare e utilizzare i "semplici". Un "semplice" non è né un erba né una pianta. E' quella parte della pianta che si ritiene abbia valore medicinale: può trattarsi delle foglie o dei boccioli, secchi o freschi, delle radici, dei semi, della linfa o della corteccia, o di parti diverse dei tuberi e dei bulbi. E' questo che si intende per "semplice" ed è raro trovare un erbario che non cominci con una frase sulle sue virtù. Nei secoli gli studiosi erboristi hanno incluso nelle loro opere trattati su materie così diverse come l'astrologia, la magia, l'allevamento degli animali, la medicina lapidaria e persino la vinificazione. Esistono formulari e antidotari che contengono ricette di alessifarmaci composte da centinaia di ingredienti. Liste di sinonimi e di possibili sostituzioni, in genere chiamate semplicemente "Tractatus quid pro quo", venivano allegate agli erbari allo scopo di offrire chiarimenti e di ingrandire ulteriormente l'armamentario dei rimedi, anche se esse erano raramente opera dell'autore dell'erbario. Questi lavori sono classificati come letteratura erboristica, sebbene non si tratti di descrizioni di erbe. Essi non sono in ogni caso degli erbari nel senso stretto del termine, nel senso cioè in cui la parola erbario è utilizzata nel presente lavoro. Nella storia dello studio erboristico è possibile delineare due linee di sviluppo che talvolta convergono e altre volte seguono percorsi separati. Coloro che si sono interessati allo sviluppo storico degli erbari hanno in genere apprezzato quelle opere che sono state più significative per il progresso della botanica. Il sottotitolo alla storia degli erbari di Agnes Arber è "Un capitolo nella storia della botanica" , ed è stato proprio questo tipo di approccio a favorire la valorizzazione degli erbari come documenti storici. Oltre a quelle opere che si inquadrano immediatamente come documenti medici o botanici, esiste anche una vasta letteratura erboristica in cui la botanica, la farmacia e la medicina sono inseparabili. Ma la letteratura erboristica ha continuato, per lungo tempo, a essere interpretata come mera espressione di una serie di fasi di transizione all'interno dello sviluppo di una botanica scientifica. Ernst Meyer, studioso di storia della botanica ha definito, ad esempio, Alberto von Bollstaedt, noto con il nome di Alberto Magno (1193-1280 d. C.) come il più grande botanico di quel lungo periodo che va da Aristotele (384-322 a. C.) e Teofrasto (ca. 372-285 a.C.) fino ad Andrea Cesalpino (1519-1603 d. C.). "Da Aristotele, il creatore della scienza botanica, fino al tempo di Alberto Magno, questa scienza era sprofondata sempre più in basso col passare del tempo. Con lui essa risorse come un'araba fenice dalle sue ceneri. Credo che questo sia merito sufficiente, e nessuno mai potrà strappargli questa corona" . La visione di quel periodo come di una età buia per la botanica, in cui è Alberto a offrire l'unico sprazzo di luce, dimostra il pregiudizio che molti storici della botanica hanno avuto nei confronti degli erbari. E' per questo che i nomi di molti scrittori erboristi medievali e delle loro opere sono stati ignorati, nel tentativo di separare la botanica come scienza dalla botanica medicinale. In questo modo molte opere di valore sono state sminuite, fraintese o trascurate del tutto. Si può dire che una separazione troppo rigida fra i punti di vista filosofico e utilitario, separazione imposta unicamente dagli storici, ha portato a una dicotomia artificiale che ha fatto sì che molti contributi della letteratura erboristica non siano stati esaminati o siano stati sottovalutati. Conferma di ciò è la tradizione salernitana con i suoi due testi fondamentali sui "semplici", il Circa instans di Matteo Plateario e il Liber cibalis et medicinalis pandectarum di Matteo Selvatico, scritti tra la seconda metà del XII secolo e gli inizi del XIV secolo, in un lasso di tempo che include la maggior parte degli scritti di medicina salernitana, come è stato dimostrato dai numerosi saggi che documentano il prestigio e la notorietà del centro campano . Le prime testimonianze sui medici salernitani, però, si datano già tra il IX e X secolo. La Historia inventionis ac translationis et miracula Sanctae Trophimenae, dell'inizio del secolo X, descrive un archiatra salernitano di nome Gerolamo che consulta "immensa volumina librorum" . Alla fine dello stesso secolo le Historiae di Richerio di Reims raccontano di un anonimo medico salernitano alla corte del re di Francia e in quello successivo il cronista inglese Orderico Vitale, nella Historia ecclesiastica, menziona le "scuole" di medicina salernitane . Inoltre, alla metà del XII secolo, l'ebreo Beniamino di Tudela intraprende un lungo viaggio dalla Navarra, attraverso la Francia e l'Italia, fino a Napoli e a Salerno, "urbem medicorum scholis illustrem", per incontrare gli ebrei residenti in queste terre . Un francese, un inglese e un ebreo, lungo un arco di quattro secoli, testimoniano la presenza continua di Salerno quale crocevia di culture e di saperi, spazio deputato all'eredità del mondo greco, di quello latino, ebraico e arabo. Qui s'incontrano longobardi e normanni, papato e monachesimo influenzano la vita civile e spirituale non solo, ma nella città campana transitano, in un'eccezionale congiuntura geografica e temporale i grandi personaggi dell'epoca. Agli inizi del secolo XIV la tradizione medica salernitana è, ormai, al tramonto della sua creatività scientifica, al suo posto è subentrata una routine sperimentale senza ulteriori evoluzioni ma, proprio in questo periodo, vede la luce una delle opere più importanti per la cultura medica e per i "semplici", il Liber Pandectarum medicinae. Varie possono essere state le ragioni del declino della medicina salernitana e, a causa dell'assenza di documenti, è incerto anche l'ambito nel quale la Schola abbia svolto la sua funzione. Salerno, infatti, è stata definita la prima università in Europa. Questo può essere vero a secondo di cosa si intenda per università. Di certo l'università di tipo moderno, dotata di diverse facoltà e di docenti stabili, non esisteva prima del secolo XIV. Se la presenza degli insegnamenti del trivium e del quadrivium sono sufficienti a definire un'università, allora Salerno deve riconoscere il diritto di precedenza a Bologna e Parigi. Se d'altra parte uno studium generale, cioè un gruppo di studenti che si riuniscono per apprendere, può considerarsi università, allora Salerno può reclamare a buon diritto il titolo di prima università europea. Sono numerosi gli interrogativi che emergono riguardo alle circostanze dell'insegnamento della medicina a Salerno. Quand'è che la comunità di medici istituzionalizza l'insegnamento? Tale formalizzazione avviene prima che Salerno riceva statuto legale e privilegi reali nel secolo XIII? Lo sviluppo di un curriculum regolare e di un corpus di letteratura scientifica nel XII secolo può considerarsi una prova dell'esistenza di una scuola? Alle ultime due domande si può rispondere affermativamente. Sappiamo che un corpus di testi e un insegnamento formalizzato esistono già prima del riconoscimento legale della Scuola ma, dal momento che non vi sono documenti ufficiali che indichino esattamente tutto ciò, è esclusivamente la stessa letteratura didattica a dover essere addotta come prova. Il XII secolo rappresenta il momento in cui la Scuola Salernitana raggiunge i risultati più alti, è in questo periodo che vedono la luce la maggior parte dei trattati di medicina legati alla Scuola e che ne influenzano ogni sviluppo futuro. Fra questi scritti vi sono trattati sulla medicina pratica, sulla terapeutica, le febbri, le pulsazioni, l'uroscopia, le diete, l'anatomia, nonché disquisizioni sulla materia medica come il Circa Instans e l'Antidotarium di Nicola, a cui tanto si legano le Pandette. Queste opere sono innegabilmente finalizzate a scopi didattici. L'autore dell'Antidotarium riferisce nella prefazione che il formulario è composto a richiesta di alcuni studenti di medicina pratica: "Alcuni studenti della pratica della medicina chiesero a me, Nicola, di istruirli circa i metodi con cui si devono mescolare e somministrare i rimedi" . L'autore anonimo dell'Ars medendi indica come fonti del suo trattato gli insegnamenti e gli scritti di Cofone e dei suoi studenti . La presenza di commentari lascia presupporre che a Salerno nel XII secolo sia esistito un metodo di insegnamento basato sulla lettura e l'esplicazione di testi autorevoli. L'Antidotarium di Nicola è accompagnato dall'esempio più antico di tali commentari nella Scuola di Salerno e l'affermazione iniziale del commentatore Plateario già pone il testo come strumento didattico. "Questo libro che ci accingiamo a leggere è una raccolta di numerosi antidoti" . Il fatto che il commentario si basi su testi salernitani è testimonianza dell'esistenza di una tradizione riconosciuta di letteratura, esclusivamente salernitana, su cui si fonda l'insegnamento. Questa circostanza rafforza l'ipotesi di in un'atmosfera di stabilità e di organizzazione, proprie di una scuola stabile. Se, così come dimostra la citazione testé riportata, esiste effettivamente una scuola stabile a Salerno, perché non abbiamo alcun documento relativo al suo status prima del XIII secolo? A questa domanda non si può rispondere in modo esaustivo: non esistono allo stato attuale documenti che descrivano l'organizzazione della Scuola nel XII secolo come hanno ribadito Italo Gallo, Massimo Oldoni e Aurelio Musi in un loro recente lavoro , né è possibile trarre conclusioni definitive sul legame tra la Scuola medica velina e quella salernitana.

4) DUE ERBARI DI TRANSIZIONE

La complessità e l'importanza dei testi salernitani sono da lungo tempo acclarate tuttavia ricercare le tracce medievali presenti, nel Circa instans prima e nelle Pandette poi, vuol dire tralasciare la parte più conosciuta delle tradizioni mediche e botaniche, delle quali vi è un segno profondo nello sviluppo della medicina e della materia medica salernitana e rivolgersi, invece, a linee sottili presenti in alcuni testi. Sicuramente le dottrine e le teorie mediche classiche che prendono l'avvio da Ippocrate e in particolare da Galeno, veicolate, però, da Oribasio e Paolo di Egina, due medici bizantini, sono le fonti che hanno esercitato una influenza particolare sulle dottrine mediche medievali. Nei loro scritti sono presenti anche frammenti sopravvissuti di altri testi medici bizantini. Gli scritti di Teofrasto, Plinio il vecchio e Dioscoride, fondamenta di tutta la letteratura medica e botanica, rappresentano, poi, due distinte tradizioni testimoniate anch'esse negli scritti salernitani. Al di sopra di tutti i padri dell'antica botanica, particolare attenzione suscita l'opera di Dioscoride, sicuramente il testo erboristico più influente nel Medioevo. Questa analisi pone, però, ulteriori interrogativi sulla valutazione di una eventuale accessibilità del sapere greco in Europa e in particolare in ambito meridionale, dove la sua diffusione, prima della fine del secolo XI, deve essere stata un processo frammentario e differenziato, rintracciabile attraverso alcuni dati che aiutano nella costruzione di un pallido schema. Ancora più complesso è il filo che intreccia la materia medica salernitana e quella araba. Mesuè Maior, Iohannizio, al-Kindi, Razi, Haly Abbas, Avicenna, Isacco l'Ebreo, al-Biruni, gli scrittori arabi del califfato occidentale e infine l'influenza araba a Salerno, sono tutti capitoli che vanno ancora scritti. Ciò che potrebbe apparire dall'esame degli studi sulla farmacopea salernitana è che tutti i documenti erboristici di qualche rilevanza siano greci, romani o arabi; ma le cose stanno altrimenti. Vi sono due importanti erbari che non possono essere attribuiti ad alcuna di queste tradizioni, infatti, per quanto le loro fonti siano greco-romane, essi sono opere di carattere distintamente medievale e richiedono per questo una trattazione separata. Sono due erbari di rilievo, e in questo caso rilievo equivale a successo, ed è, dunque, necessaria una loro valutazione prima di passare allo sviluppo della materia salernitana vera e propria: si tratta delle opere dello Pseudo-Apuleio (ca. 400 d.C.) e di Macer Floridus (prima metà XI sec.), che possono essere considerati come testi intermedi tra il De Materia Medica di Dioscoride, del I secolo d.C, e il primo formulario esclusivamente salernitano, l'Antidotarium Nicolai del XII secolo. L'erbario dello Pseudo-Apuleio appare sotto vari titoli: De Medicaminibus Herbarum Liber Uno, Herbarium Apulei Platonicii, Herbarium de Sextus Apuleius Barbarus, Herbarium Apuleius Plato, e De Herbarum Virtutibus e, nella sua versione originaria, è semplicemente una guida illustrata alle proprietà mediche delle 131 piante in esso elencate. Qualche tempo dopo la sua apparizione viene aggiunta una lista di sinonimi. Il più antico manoscritto esistente è databile al VI o VII secolo, ma si tratta molto probabilmente di una copia di una versione precedente. Come il suo autore, anche il suo luogo di composizione è incerto; si è proposto sia la Francia del sud sia l'Italia del sud . Una traduzione latina è eseguita a Monte Cassino nel IX secolo (Codex Casiensis MS. 97). Su questo manoscritto si basa la prima edizione a stampa, che è anche il primo erbario completamente illustrato ad essere inciso (Roma, ca.1481). L'Herbarium dello Pseudo-Apuleio è un lavoro compilativo basato principalmente sulle osservazioni di Plinio e Dioscoride. Le piante in esso riportate sono di origine mediterranea e sono divise in capitoli, ciascuno dedicato ad un "semplice", illustrato sopra all'intestazione del capitolo. E' difficile dire se la versione originale fosse organizzata allo stesso modo , ma in ogni caso i più antichi manoscritti sopravvissuti, del VI o VII secolo, presentano tale forma. Il nome e l'immagine di ciascuna pianta è seguito da una lista di patologie ritenute trattabili con il "semplice" in questione. Per esempio la piantaggine, la prima voce dell'erbario, ha ventiquattro indicazioni, fra cui mal di testa, ferite, morsi velenosi, vermi, orecchioni, fistole, e morsi di cani idrofobi, ma il suo uso non è descritto dettagliatamente. Nel caso del morso di un cane idrofobo, per esempio, si raccomanda semplicemente di pestare la pianta e applicarla. La sezione sulle piantaggini si conclude con una lista di diciassette sinonimi comprendenti nomi utilizzati da gallesi, greci, spagnoli, egiziani, daci, romani e italiani . L'autore fornisce ben poche informazioni sulle piante stesse, mancano istruzioni per la loro raccolta, essiccazione e conservazione, né si fa menzione delle loro proprietà lasciando al lettore il compito di scoprire da solo se una particolare pianta sia astringente, rinfrescante, o altro. Le indicazioni concernenti i pesi, le misure, i metodi di mescolamento e i dosaggi sono assenti nella maggior parte dei casi e sono vaghe in altri. Queste lacune fanno propendere per una compilazione da parte di un profano, perché tutti i lavori attribuibili a medici forniscono, invece, dati precisi su tali aspetti. Nonostante la mancanza di spiegazioni e di precisione, o forse proprio a causa di esse, l'Herbarium è il manuale di erbe medicinali più diffuso del Medioevo, finché non è sostituito dal De viribus Herbarum di Macro. Non si sa esattamente chi fosse Macro Florido o Macro dei Fiori, il poeta medievale delle piante. Divisa in settantasette veri e propri capitoli che non seguono alcun ordine particolare, quest'opera inizia con la descrizione di ciascuna pianta e con il suo nome greco, seguito da quello latino e spesso da quello volgare. Per l'enula campana, ad esempio, fornisce i seguenti nomi: "Enula, chiamata Elna dai Greci ed Helenium dai medici, è di aspetto a tutti noto" . Si inizia con le piante comuni da giardino come l'artemisia, l'abrotano e l'assenzio, e si conclude con piante esotiche come i chiodi di garofano e l'aloe. Ciascuna pianta è descritta in una ventina di versi dedicati soprattutto all'illustrazione delle sue proprietà; alcune delle descrizioni sono, però, molto più lunghe, come ad esempio quelle del cavolo, della senape, della ruta, della bettonica, della piantaggine, dell'elleboro e dell'assenzio. Per la paternità dell'opera si propone Odo di Meung, il cui nome figura in un manoscritto del XII secolo . In verità, il mistero circonda l'autore di questo erbario, un poema di ben 2269 esametri, al punto che non è possibile identificarne nemmeno la nazionalità. E' stato ipotizzato che fosse di origini francesi, sicule, o persino salernitane. Choulant, che ne ha curato l'edizione e ne ha studiato la lingua, propende per un'origine francese sulla base dei seguenti nomi di piante: gaisola (Isatis tinctoria), maurella (Solanum nigrum), jusguiamus (Hyoscyamus niger), e gingiber (Zingiber officinalis) . Vi sono, però, anche significativi elementi a sostegno di un'origine italiana o salernitana di Macro. Sulla base di alcuni medesimi nomi di pianta utilizzati da Choulant per la sua tesi francese, De Renzi, infatti, afferma che egli è di origine salernitana e da ciò ne derivano anche informazioni sulla realtà medica presente nell'Italia meridionale a partire dal 900 . In effetti la lingua dell'opera mostra molte tracce di dialetti calabresi e siciliani. Quanto a nomi come brassica, lolium e elna sono di origine greca, ed è logico che figurino in un erbario scritto in Italia meridionale. Meyer conclude, in base alla lingua e ai nomi delle piante, che questo poema erboristico è scritto da un italiano del sud . Il testo, tra l'altro, rivela una buona conoscenza della lingua greca e costituisce un precedente ai primi lessici, databili tra la fine del 1200 e gli inizi del secolo successivo, di Simone da Genova e Matteo Silvatico, un momento chiave per la storia della botanica. Nel De viribus Herbarum ogni pianta è catalogata col suo nome greco e latino, mentre le malattie conservano la denominazione greca. Oltre a molti riferimenti mitologici, sono citati Plinio, Dioscoride, Galeno e Oribasio. Molti versi del poema di Macro ricompaiono nel Regimen Sanitatis Salernitanum, il che indica che l'opera era accessibile ai medici salernitani, ma ciò non costituisce prova delle origini del suo autore . E' citato da Matteo Plateario, che lo chiama sia Macro che Macron. Rufino , le cui fonti sono principalmente salernitane, cita Macro chiamandolo sempre Macer e mai Macro o con qualche altra variante del nome. Il poema è, dunque, ben noto agli autori salernitani, il che potrebbe essere un ulteriore argomento a favore della tesi che l'autore sia originario dell'Italia meridionale. Grande è la sua popolarità per tutto il Medioevo, frequentemente citato nelle compilazioni di Bartolomeo Anglico (c. 1256) e Matteo Silvatico . In effetti, però, a fronte di una grande popolarità corrisponde un lavoro che, come per lo Pseudo-Apuleio, non contiene alcuna informazione di valore botanico o orticolo. L'opera tratta con semplicità le principali piante ed erbe medicinali reperibili facilmente a basso prezzo. La documentazione è organizzata sommariamente, spesso commista a formule magiche, e le quantità indicate sono del tutto inaffidabili in quanto non sono specificati i pesi farmaceutici. I due erbari più diffusi dell'alto Medioevo sono, dunque, opere scientificamente mediocri, eccetto che per i profani che non dispongono di fonti alternative.

5. Gli stadi dello sviluppo della letteratura medica salernitana.

Il primo scrittore di medicina attestato a Salerno è Garioponto o Guarimpoto, secondo De Renzi e Capparoni , un salernitano che vive nell'Hippocratica civitas intorno al 1040. La sua compilazione, il Passionarius, è un lavoro enciclopedico che attinge ampiamente a Galeno, Teodoro Prisciano, Alessandro di Tralles e Paolo di Egina , importante, soprattutto, dal punto di vista linguistico, essendo fonte di gran parte della moderna nomenclatura medica. Il Passionarius, diviso in cinque libri con un'appendice di altri tre libri, contiene, infatti, molti termini greci latinizzati che riflettono l'uso comune ed è, in gran parte, una compilazione fatta su traduzioni latine degli autori citati. E' dal punto di vista linguistico che l'opera di Garioponto presenta notevole interesse perché testimonia la nascita del linguaggio medico moderno. Egli, nel latinizzare le voci greche, si serve anche di parole tolte dal gergo del popolo come gargarizzare, cicatrizzare, cauterizzare, polverizzare, solo per fare alcuni esempi. In effetti, per quanto il Passionarius non sia un'opera originale, il suo pregio è soprattutto nel suo carattere scolastico e linguistico che conferma quali siano gli autori più spesso citati all'epoca e mostra inoltre che la corrente dominante della medicina salernitana dell'XI secolo è greca, senza tracce di influenza araba. Ma sono i Dynamidia, attribuiti anch'essi a Garioponto , ricchi di notizie riguardanti i "semplici", l'ambiente, le coltivazioni e le stagioni, l'opera che contribuì a fare dell'utilizzazione delle erbe a scopo terapeutico uno dei settori più prestigiosi dell'attività della futura Scuola . Resta il fatto che, dopo la comparsa di queste opere, a partire dalla metà del secolo, il numero dei trattati salernitani aumenta. L'influenza greca continua a Salerno con la Practica di Pietro Clerico o Maestro Petronio, Petrocello o Petroncello, nomi che indicano lo stesso dottore, molto probabilmente coevo di Garioponto o suo discepolo. Il nome di Petrocello appare nell'anno 1035 riferito ad una compilazione di trascrizioni dal greco, la Practica Petrocelli Salernitani , uno scritto analogo al Passionarius, dal quale numerosi capitoli sono trascritti con citazioni dal greco e molte parole greche latinizzate. La Practica tratta le malattie a capite ad pedes in 151 capitoli. Ogni sezione inizia con una descrizione della malattia in latino, spesso seguita dal suo nome greco; seguono le cause dei sintomi e i trattamenti. L'interesse primario di Petrocello sono i metodi di cura basati sulle diete, la flebotomia e la somministrazione di farmaci semplici e composti. Di solito questi ultimi, pur nella loro complessità, sono essenziali e scevri da ogni legame con la superstizione. Ciò vale, in verità, per tutte le prescrizioni salernitane che tendono ad essere lontane dalle tradizioni magiche e che raramente si avvalgono di farmaci dannosi, come per esempio gli escrementi animali e umani. Petrocello mostra familiarità con la terminologia greca che ben si spiega alla luce della sua conoscenza delle Etymologie di Isidoro di Siviglia . Questa tradizione di nomenclatura e conoscenza medica greca si avverte in tutti gli scritti salernitani successivi.

6. Costantino e Nicola: l'inizio di una farmacopea

Gli inizi dell'influenza araba a Salerno risalgono a due figure considerate essenziali per lo sviluppo della materia medica salernitana che raggiunge la sua piena fioritura nel XII secolo. Sono Costantino l'Africano e Nicola da Salerno: purtroppo, però, solo del primo vi è un'ampia biografia, di Nicola, invece, vi sono scarse notizie. Per la vita di Costantino l'Africano la fonte principale sono le Cronache di Pietro Diacono che ne descrivono la formazione e forniscono una lista delle sue opere. Secondo Pietro, Costantino nasce a Cartagine intorno al 1015. A Babilonia (sempre secondo Pietro; in realtà probabilmente al Cairo) studia grammatica, dialettica, matematica, astronomia, e physica (medicina). Pare che abbia proseguito i suoi studi fra i Caldei, gli Arabi, i Persiani e i Saraceni. Dopo molte avventure, Costantino diviene monaco a Monte Cassino dove rimane fino alla sua morte nel 1087. È qui che traduce molti trattati dall'arabo, e gli si attribuisce l'introduzione della medicina greca in Occidente proprio tramite queste traduzioni , una tesi che, come abbiamo visto, non rispecchia pienamente le reali circostanze della diffusione della medicina greca in Europa; tuttavia non si può negare che le traduzioni di Costantino abbiano messo a disposizione dei medici salernitani un vasto corpus di teoria e informazione medica. Sono attribuite a Costantino numerose opere, molte delle quali sono traduzioni dall'arabo. Pare che nessuno dei lavori che portano il suo nome siano originali, il che gli ha valso l'accusa di plagio. Nonostante le severe critiche rivoltegli, fra cui quella di scrivere in un latino barbaro, il suo contributo alla letteratura medica di Salerno è significativo. L'elenco di opere attribuitegli comprendono trentasette titoli, fra cui gli Aforismi di Ippocrate, due trattati terapeutici galenici, un monumentale compendio medico che Costantino intitola Kitab kamil al-sina'a al-tibbiya, del medico arabo 'Ali ibn al-'Abbas al-Magusi, denominato negli ambienti latini Haly Abbas (seconda metà del X secolo). Ampiamente diffuso nel basso medioevo , il contributo di questo esauriente manuale medico, Pantegni, nella versione latina, è diviso in due parti: una teorica e una pratica. Tra le compilazione di Costantino riveste un'importanza preminente per la storia della materia medica salernitana il De Gradibus Simplicium Medicinarum , che comprende oltre duecento rimedi e offre essenzialmente uno sviluppo della dottrina galenica delle qualità applicata alle sostanze medicinali. Queste sostanze sono definite secche o umide, calde o fredde in varie gradazioni . Un'erba, ad esempio, è calda al primo grado se il suo calore risulta inferiore a quello del corpo umano nelle sue condizioni normali, al secondo grado se è pari a quello del corpo umano, al terzo se è superiore. Il quarto grado è definito eccessivo e pericoloso. Poiché ciascuno di questi quattro gradi è a sua volta diviso per tre, si hanno dodici distinte qualità. La seconda influente figura di transizione nella storia della farmacopea salernitana è Nicola da Salerno. L'Antidotario che porta il suo nome diviene più o meno la farmacopea ufficiale della Scuola, ma nonostante ciò non rimane alcuna testimonianza della vita e dell'identità del suo autore. La versione più antica ha come titolo Antidotarium Nicolai Salernitani. Il manoscritto, revisionato da un medico del XVI secolo, riapparve con il titolo Antidotarium Nicolai Praepositus . L'Antidotario, designato anche come parvum per distinguerlo dal grande Antidotario bizantino noto come magnum, è di solito tramandato assieme a un opera di Mesuè il Giovane ed esiste una sola edizione molto rara che lo riporta da solo. L'Antidotario di Nicola descrive 142 medicamenti, tutti compositi e molti estremamente elaborati. Questo formulario comprende vari elettuari, sciroppi e confetture tipici della farmacopea araba che privilegia i medicamenti compositi resi gradevoli con dolcificanti. Raramente manca lo zucchero o il miele nelle ricette arabe. Il prefisso greco "dia" (attraverso) indica sempre una confettura o un elettuario. L'Antidotario ci fornisce le ricette del dialibanum, un elettuario di incenso, del diaciminium, un elettuario di cumino, del diaprunis, un elettuario di prugna, e del diamargariton, un elettuario di perla. La ricetta del diaprassium, un elettuario di marrubio, contiene non meno di sessantuno ingredienti . La maggior parte degli ingredienti delle ricette dell'Antidotario si ritrova nella materia medica galenica, e molte ricorrono nell'erbario di Dioscoride. Sigerist ha effettuato un confronto dettagliato fra questo formulario e altri dello stesso periodo: sulla base di questo studio egli afferma che l'Antidotario di Nicolò è la base di tutte le farmacopee occidentali . Ancora LaWall nella sua Storia della farmacia ricorda che la maggior parte degli odierni pesi da farmacia - il grano, lo scrupolo, e il dramma o dracma - risale proprio a Nicola . Non si potrà mai sottolineare abbastanza l'importanza di questo Antidotario nello sviluppo della farmacopea europea, ma la sua influenza non fu limitata all'Europa: nel 1396 era una lettura obbligatoria per gli studenti di Cambridge e, accanto al Circa Instans, è ritenuto uno delle opere di botanica più significative della scuola salernitana. Lo sviluppo della materia medica salernitana, però, è debitore non solo della letteratura erboristica che l'ha preceduto, ma anche di una certa idea della malattia che accomuna i medici salernitani. La migliore fonte di informazioni sulle dottrine e le terapie mediche della Salerno del XII secolo è senz'altro il De Aegritudinum Curatione, un lungo compendio scritto a più mani. Quest'opera, insieme all'Ars Medendi di Cofone, manuale di educazione medica del XII secolo, costituisce un punto di riferimento fondamentale per la comprensione della nomenclatura utilizzata da Plateario prima e da Silvatico poi nella descrizione delle malattie. Ma questo è un altro capitolo della lunga storia dell'antica medicina salernitana.